Provate a chiedere a un calciatore, un allenatore o anche a un semplice tifoso di rivelarvi il proprio rito propiziatorio prima della partita. Probabilmente vi rideranno in faccia o faranno finta di non avervi sentito. Tutti sanno, infatti, che esiste da qualche parte nell’universo un Dio Pallone attento ad ogni oggetto scaramantico, gesto apotropaico o qualsivoglia rituale fatto per ingraziarselo.
E siccome tutto il mondo è paese – figurarsi poi se parliamo di calcio – se da noi vige la scaramanzia in Africa è la magia a farla da padrona. Differenze? Probabilmente nessuna, visto che per entrambe vale il detto “non è vero, ma ci credo”. Questo devono aver pensato i soldati congolesi di Mobutu quando, alla vigilia della finale della Coppa dei Campioni africana del 1971, hanno tentato di sequestrare e distruggere il cappello magico del portiere Robert Mensah da Cape Coast, Ghana, dove ancora oggi lo stadio porta il suo nome.
La magia nera del Juju in un berretto
Mensah è stato probabilmente il più grande portiere della storia del Ghana, in campo negli anni d’oro della nazionale delle Black Stars tra il 1960 e il 1970. Un gigante di quasi due metri con una capacità atletica straordinaria, in grado di farlo letteralmente volare nelle uscite alte e al tempo stesso scendere in picchiata con grande coraggio e sicurezza sui piedi avversari. Una forza da molti creduta sovrannaturale e che fu presto affibbiata al suo strano cappello, dal quale non si separava mai. Era un regalo di suo nonno, un pastore d’anime molto temuto e rispettato nella comunità di Cape Coast, che in punto di morte glielo aveva messo tra le mani. Si diceva che avesse condensato in esso dei poteri juju, la stregoneria tradizionale africana legata ad incantesimi e amuleti.

Robert aveva un carattere fumantino, provocatore e vista la sua stazza non si tirava certo indietro se c’era da menare le mani. Le cronache dell’epoca raccontano che le peggiori risse in campo si verificavano quando gli avversari cercavano di togliergli il cappello, frustrati dai suoi salvataggi spettacolari e dal suo atteggiamento indisponente, talvolta addirittura appoggiato al palo con un giornale in mano per irridere gli attaccanti rivali. Tanto Mensah para tutto, vince due Coppe d’Africa col Ghana e diversi titoli nazionali con l’Asante Kotoko di Kumasi, con cui arriverà a giocarsi la Coppa dei Campioni nel 1967 contro i congolesi dell’Englebert (l’attuale squadra del Mazembe). Sia l’andata sia il ritorno finiscono in parità. L’arbitro allora opta per la monetina, ma la Federazione Calcistica Africana (CAF) non è d’accordo e programma una “bella” in campo neutro. Al momento di avvisare le squadre, però, i dirigenti della CAF dimenticano (casualmente?) di telefonare ai ghanesi, che ovviamente non possono presentarsi alla finalissima. L’Englebert vince a tavolino e a Kumasi è il finimondo.
La rivincita dei porcospini alla corte di Mobutu
Quattro anni dopo, però, il Dio Pallone concede ai porcospini dell’Asante Kotoko una nuova opportunità. Ancora contro il Tout Puissant Englebert, “l’onnipotente Englebert”. Ancora in finale di Coppa dei Campioni d’Africa. L’andata a Kumasi finisce 1-1 e il ritorno è il 24 maggio 1971 a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo che di lì a pochissimo il dittatore militare Mobutu avrebbe rinominato Zaire. Come quasi tutti i tiranni, anche Mobutu usa lo sport come strumento di propaganda e di conseguenza non può assolutamente permettere che una squadra del suo paese perda la coppa, per giunta in casa. Dopo aver preventivamente corrotto l’arbitro, pensa bene di spedire i giocatori dell’Asante in una stamberga spacciata per hotel, di fronte a una palude puzzolente e senza nemmeno le finestre per proteggersi dalle zanzare.
Queste infauste condizioni, unite al rombo degli oltre 80mila dello
Stade du 20 Mai, traumatizzano i rossi di Kumasi che passano in svantaggio. Robert Mensah sfiora la rissa con i soldati di Mobutu che sin dall’imbocco dello stadio provano in tutti i modi a sequestrargli il cappello, inibiti solo dalla presenza di un santone
juju al seguito della squadra. Mensah para tutto, vola in presa alta e vanifica tutti i cross che spiovevano nella sua area, trascinando la sua squadra prima al pareggio e poi al vantaggio. A pochi minuti dal fischio finale, però, l’arbitro corrotto da Mobutu concede un generoso rigore all’Englebert. L’abbaglio è clamoroso, tanto che l’allenatore dei
porcospini protesta: vuole lasciare il campo e ritirare la squadra. È addirittura Robert a fermarlo: lui è sempre stato un eccellente pararigori, ha il suo cappello magico con sé e vuole salvare la vittoria per riportare la coppa a Kumasi.
L’Ashanti non fugge, combatte
I giocatori dell’Englebert conoscono bene Mensah. Sanno che si innervosisce facilmente e, dopo averlo visto bloccare i loro tiri per tutta la partita con sprezzante facilità, per quel rigore si giocano la carta finale. Il capitano va dall’arbitro e protesta: “Il cappello del portiere è un talismano juju: è vietato dal regolamento”. Il direttore di gara annuisce e fa cenno a Mensah che se vuole rimanere in campo e provare a fermare il rigore, dovrà farlo senza il suo cappello magico. Il pubblico sugli spalti è in delirio, Robert è infuriato ma incrocia lo sguardo del santone sulla propria panchina che gli ricorda un vecchio adagio: “L’Ashanti non fugge. L’Ashanti combatte”. Caricato a pallettoni, con un gesto plateale Mensah si toglie per la prima volta in carriera il cappello magico e lo va a gettare con rabbia di fronte al manipolo di militari posizionati sotto la curva dietro la sua porta. Questi, terrorizzati, per tutta risposta puntano le loro baionette su quel temibile amuleto juju, pronti a far fuoco e uccidere la magia.

A quel punto Mensah fa come per benedire i suoi pali ed esegue una specie di danza tribale sulla linea di porta per distrarre il rigorista dell’Englebert: l’infallibile Shinabu Kagogo. Il Dio Pallone, però, questa volta è dalla parte dell’Asante Kotoko, dalla parte di Mensah che si tuffa e spedisce la palla oltre la traversa, raggelando l’intero stadio, Mobutu in primis. La squadra ghanese vince dunque la Champions africana 1971 e torna in patria in trionfo. Un trionfo breve, perché pochi mesi dopo la Nazionale non andrà oltre il 2-2 col Togo dopo aver perso 0-1 in casa. Non riuscendo, dunque, a centrare una qualificazione alla Coppa d’Africa che pareva scontata. “
Il giorno in cui il Ghana si è fermato”, titolano mestamente i giornali, celebrando profeticamente la fine del decennio d’oro delle Black Stars. Mensah fa ovviamente parte della spedizione fallimentare togolese e pochi giorni dopo, forse ubriaco in un bar, scatena una rissa con dei tifosi che glielo rinfacciano. Prova a difendersi ma una bottiglia rotta usata a mo’ di pugnale lo colpisce in punti cruciali e non si salverà. Aveva 32 anni.
I suoi funerali sono un affare di stato che coinvolge anche diversi rappresentanti di altre nazioni africane come Togo, Nigeria e Costa d’Avorio, oltre a una marea di ghanesi. Una folla oceanica che lo vedrà passare steso dentro una bara lunga quasi due metri, per la seconda e ultima volta senza il suo cappello magico.
*Photo Credit: Tiki Taka Socca Ghana, Wikimedia