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Eroi di Puglia: Pietro Mennea

14 Giu 2021 | Approfondimenti

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Pietro Mennea è stato uno dei più grandi campioni che l’Italia abbia mai schierato nelle gare sportive. Nella sua lunghissima carriera (1971-1988) non si contano le vittorie e le medaglie in campo nazionale e internazionale e sembra impossibile che la Freccia del Sud sia la stessa persona che abbia conseguito 4 lauree più il diploma Isef, svolgendo con successo anche le professioni di avvocato, giornalista, docente, commercialista, procuratore, dirigente calcistico, eurodeputato e scrittore di oltre venti libri. Mennea, insomma, è stato molto più di un asso sportivo: è stato un esempio positivo che ha sgomitato per uscire dall’ombra in un mondo in cui gli esempi positivi non vanno mai di moda.

Pietro Mennea - Figurina - Eroi di Puglia



Pietro Mennea: Più veloce delle fuoriserie

Pietro Paolo Mennea nasce a Barletta il 28 giugno 1952. Papà Salvatore viene da una famiglia umile con undici figli e tante difficoltà a portare il pane a casa. Pietro Mennea giovane a Barletta - Credit salvatore BuzzelliForse per questo Salvatore di figli decide di farne “solo” cinque, quattro maschi e una femmina, insieme alla moglie Vincenzina che, oltre a fare la madre e la casalinga, lo aiuta nella sua bottega di sartoria. Non è ancora l’Italia del boom economico, specialmente al Sud: la tv si guarda ancora tutti insieme al circolo degli anziani pagando 50 lire l’ingresso. Pietro impara presto a fare la sua parte nel ménage domestico: fa i piatti, pulisce la cucina, lava i vetri. Ha solo tre anni quando la mamma lo manda a comprare un bottiglione di varechina che gli si apre nel tragitto solcandogli a vita le mani.

Pietro è uno scolaro diligente. Sempre promosso con buoni voti, si iscrive a ragioneria. Alla domenica papà Vincenzo lo manda in bicicletta a portare i vestiti ai clienti, ma la tentazione di un pallone calciato in piazza sognando le gesta della Grande Inter (di cui è tifoso) è troppo forte, almeno fino a quando non viene scoperto e se la da a gambe per i vicoli della città. Senza che nessuno lo riesca a prendere. È lesto, Pietro, e quanta adrenalina in corpo gli mettono quelle fughe. Ci prende gusto e comincia a sfidare gli amici in gare di corsa attorno alla cattedrale, dove nasce la sua fama di imbattibile. All’istituto tecnico, però, è sempre il numero 2. Il suo compagno di classe Palmi, detto Pallamolla, lo batte sempre fino a quando un giorno, tra le urla di tutta la scuola affacciata alle finestre, Pietro lo lascia finalmente indietro e capisce che quella sarà l’ebbrezza che andrà ricercando con rabbia per tutta la vita.

A Barletta, però, non esistono piste di atletica e lui comincia cimentandosi con la marcia nelle prime gare provinciali con l’Avis. I primi pantaloncini da corsa glieli cuce suo padre, che gli compra anche delle scarpe da gara di una misura più grande affinché gli possano durare più a lungo, in barba a tutte le odierne teorie sulla riflessologia plantare e posturologia.

Pietro Mennea - AVIS Barletta - 1967 vittoria atleticaNonostante la carenza di strutture, però, Mennea si butta prima sul mezzofondo e poi sulla corsa veloce, costantemente seguito dal prof. Mascolo. Che non può impedire, però, che prima di ogni gara Pietro ingurgiti due o tre piatti di pasta al forno, come prima del suo primissimo record a Salerno sui 250 metri nel 1967. Ma non è l’unica guasconeria della sua adolescenza. A Barletta diventa noto come “collaudatore di macchine veloci”. Chi compra un’auto di grossa cilindrata da rodare gli va a suonare a casa, anche di sera tardi. Lui, che condivide il letto con altri due fratelli, sgattaiola fuori cercando di non svegliarli per raggiungere l’appuntamento che di solito è in via Pier delle Vigne. Da lì parte un rettilineo di 50 metri, leggermente in discesa, che arriva fino a Viale Giannone. Di volta in volta Ferrari, Porsche o Alfa Romeo lo sfidano a chi arriva prima partendo a motore spento: in palio 500 lire. Nel tripudio generale, Mennea le brucia tutte fino all’immancabile arrivo della polizia, dalla quale – neanche a dirlo – riesce a volatilizzarsi in un battito d’ali. Erano i primi soldi per un panino, un cinema o qualche sfizio la domenica.

Il sudore di Formia

La carriera in ambito agonistico inizia al torneo “Vele dello Sport” organizzato dal Corriere dello Sport nel 1968, la stessa estate in cui Pietro ammira dalla televisione le gesta di Tommie Smith alle Olimpiadi di Città del Messico (medaglia d’oro e record del mondo nei 200 metri) sognando un giorno di partecipare ai Giochi e di emularlo.

Conseguito il diploma di ragioneria, la passione per lo sport lo spinge a iscriversi all’ISEF di Cassino e a continuare a partecipare a varie competizioni nazionali diventando Azzurro al primo anno di Juniores e vincendo il titolo italiano sui 200 al secondo anno. Durante una di queste gare a Termoli viene notato dall’ex velocista e trainer marchigiano Carlo Vittori: esile e mingherlino, inizialmente pensa che più che al campo d’allenamento l’avrebbe dovuto portare in trattoria a mangiar bistecche. Ma alla fine si convince che questo sprinter acerbo e atipico (è alto 1,79 per soli 65 chili) magari non sia un predestinato, ma che possa diventare un talento da sgrezzare e lo convince a trasferirsi al centro federale di Formia.

Per il giovane emigrante pugliese Mennea sono tempi duri. Solo e lontano dalla famiglia, si allena 5 o 6 ore al giorno per 350 giorni l’anno, Natale e Pasqua compresi, seguendo la preparazione del professor Vittori che gli vieta perfino l’acqua gassata e gli impone carichi di lavoro spaventosi. Ma non per il barlettano, che stupisce il suo tecnico restando in pista anche quando questi pensa di averlo cotto a puntino. Di carattere schivo e riservato, è l’unico del centro che entra in campo in tuta la mattina e ne esce di sera: “A Formia ci costruivamo da soli gli attrezzi, anche in quello siamo stati artigiani. E sono tornato a sfidare i motori, come da ragazzo. Dall’auto siamo passati alla Vespa. Solo che Vittori a volte non riusciva a cambiare le marce in fretta, allora vincevo io”.

Mennea lavora sodo. La sua crescita sportiva è lenta e costante, ma sotto la guida di Vittori è sempre in prima fila nelle grandi competizioni e non ha rivali tra i coetanei europei. Il suo stile non è impeccabile e talvolta perfino sgraziato: lento allo sparo di partenza, in avvio ha una postura troppo rigida, il che gli preclude grandi piazzamenti sui 100 metri. Il suo habitat naturale, infatti, sono i 200 metri nei quali mostra subito un tratto caratteristico: in curva sembra sempre sbandare per poi recuperare miracolosamente un assetto di corsa ottimale, producendosi in straordinarie accelerazioni sul rettilineo.

Pietro Mennea - Borzov Helsinki 1971 - credit Gazzetta dello Sport

In questa specialità trionfa sia ai Giochi del Mediterraneo sia negli Assoluti, debuttando ad Helsinki nei Campionati Europei del 1971, dove a meno di vent’anni arriva sesto nei 200 metri e vince la medaglia di bronzo nella staffetta 4×100. Qui gareggia per la prima volta contro Valerij Borzov, formidabile velocista sovietico dominatore degli sprint fino a quel momento. Ai blocchi di partenza il diciannovenne Mennea lo guarda negli occhi come si guarda un dio della velocità chiedendosi: “Ma io uno così quando lo batto?”.



Osservato speciale

Pietro Mennea, Borzov, Larry Black - Credit CorriereIl mondo dell’atletica italiana scopre così Pietro Mennea e nel 1972, dopo aver fatto registrare il tempo di 10” sui 100 metri in pista a Milano, per lui è già tempo di Olimpiadi. Fuscello al vento in mezzo agli straripanti quadricipiti dei suoi avversari, a Monaco di Baviera arriva in finale nei 200 metri piani, conquistando la medaglia di bronzo dietro Valerij Borzov e lo statunitense Larry Black.

Un attonito Gianni Brera gli si avvicina e gli tocca il capo con la mano, affermando poi: “Non può essere, secondo me tu hai avi originari della Mesopotamia”. “Lei dice? Io mi ricordavo Barletta”, risponde ironico e irriverente il pugliese, facendo notare una certa inopportunità di quell’uscita che sottintendeva l’impossibilità che un meridionale potesse raggiungere determinati traguardi.

Mennea festeggia il podio in un ristorante per poi tornare a dormire nella singola dell’albergo olimpionico. Al suo risveglio è la mattina del 5 settembre: attorno a lui una situazione pazzesca, con tiratori scelti sui tetti, sirene spiegate e poliziotti in borghese dappertutto. L’organizzazione a cinque cerchi aveva sottovalutato gli allarmi del servizio segreto sul gruppo terroristico Settembre Nero, che rapì e assassinò 11 atleti israeliani e un poliziotto tedesco. Il Comitato Olimpico, però, non aveva alcuna intenzione di fermare i Giochi: “A loro interessava solo spostare i terroristi fuori dal villaggio – dichiarò poi polemicamente Mennea – Della serie: ammazzatevi pure, ma lasciateci fare le gare”.

Mennea continua ad imparare e a rimanere coi piedi per terra. Nel 1973 vince le Universiadi ed è per il terzo anno consecutivo campione nazionale nei 200 metri piani. Decide di regalarsi una Lancia Fulvia Montecarlo da rally, ma vive costantemente con la paura di aver fatto il passo più lungo della gamba e, dopo soli pochi mesi, la rivende. In quello stesso anno, però, gli viene diagnosticata una osteocondrosi della sinfisi pubica. Un responso disarmante: “Era molto probabile che non sarei mai più guarito completamente e anche se avessi continuato a correre sarebbe stato impossibile tornare ad alti livelli – scrive nella sua autobiografia – In una parola, la mia carriera sembrava al capolinea”. Pur senza farsi illusioni, Pietro non si dà per vinto: la rassegnazione non fa parte del suo carattere. Si rifugia per un po’ di tempo dalla famiglia a Barletta, peregrinando solitario per tutti i centri specialistici alla ricerca di un aiuto che trova presso l’ospedale San Matteo di Pavia. Il Professor Boni gli propone un moderno antinfiammatorio che lui stesso gli avrebbe dovuto infiltrare una volta a settimana, per cui Mennea è costretto letteralmente a inseguirlo per tutta l’Italia. Passarono mesi faticosi e senza certezze, mentre alla vigilia degli Campionati Europei di Roma del ’74 c’è già chi lo dà per finito a soli 22 anni.

E invece proprio davanti al pubblico di casa avviene la sua definitiva consacrazione. Si aggiudica l’oro nei 200 metri e dà vita a un duello serratissimo con Borzov, con cui accende una storica rivalità. Sia nella finale dei 100 sia nella staffetta veloce il pugliese gli resta incollato ma deve arrendersi al fotofinish, entrambe le volte per 10 decimi. Tre medaglie che furono il culmine di una stagione che lo vide campione nazionale nei 100, 200 e staffetta 4×100.

Pietro Mennea - Credit Wikipedia
Nel 1975 trionfa ancora ai Giochi del Mediterraneo e alle Universiadi, conseguendo anche buoni risultati in Coppa Europa a Nizza (1° nei 200, 2° nei 100, 3° nella 4×100) ma per lui non è abbastanza e a sorpresa si autoesclude dalla rosa olimpica di Montreal 1976. L’opinione pubblica però insorge: Mennea ha appena fatto registrare al centro di Formia il primato sui 300 piani col tempo di 32.2 e osservatori da tutto il mondo arrivano per copiarne i metodi di allenamento: “Mi ricordo che si nascondevano dietro gli alberi, dietro le statue, con i cronometri a prendere i tempi per capire come veniva articolato un giorno di allenamento”. Tra questi anche il campione di atletica leggera statunitense Steve William, che non si vergogna di chiedere a Carlo Vittori le serie della preparazione di Mennea: 25 volte i 60 metri, 10 volte i 150 metri. Col foglio in mano, William sorride, si aspettava di peggio, afferma che quel programma lo potrebbe tranquillamente fare in una settimana. Salvo poi trasalire quando Vittori gli dice che Pietro lo fa in un giorno.

Lo stesso Vittori ingaggia un braccio di ferro con la Fidal: neanche lui vorrebbe che Mennea accettasse di far parte della spedizione olimpica canadese. Ma sospinto dalla sommossa del popolo sportivo, il barlettano cambia idea e Vittori si dimette, ritirandosi a insegnare educazione fisica ad Ascoli Piceno e seguendo il suo allievo pugliese a Montreal solo in forma privata. L’istinto però non mentiva: Pietro corre molle, sfibrato e pur riuscendo a qualificarsi per la finale dei 200, arriva quarto ai piedi del podio dominato dal giamaicano Don Quarrie. Stesso piazzamento anche nella staffetta e tutta la carta stampata pronta a recitare il suo necrologio sportivo.



Il più veloce del pianeta

Il fallimento di Montreal è inaccettabile per Mennea che si rituffa a capofitto nel lavoro. Dominatore incontrastato delle manifestazioni nazionali, si presenta ai Campionati Europei del 1978 a Praga da campione uscente nei 200 e con un invidiabile tempo di 45.77 fatto registrare nei 400 l’anno prima. In Cecoslovacchia fra eliminatorie e finali gareggia 10 volte in 6 giorni, sfoderando prestazioni eccezionali che gli valgono la medaglia d’oro nei 100 e nei 200 e segnando uno straordinario 44.4 nell’ultima frazione della sfortunata 4×400, preludio dell’oro nei 400 metri piani nei successivi Europei indoor.

Studente di Scienze Politiche, il 1978 è anche l’anno in cui comincia a scrivere per il quotidiano La Repubblica rispondendo a chi lo stuzzicava di parlare a “un’élite di massa” proponendosi come il rappresentante di una massa d’élite”. Sebbene abbia 27 anni, frequentare l’università gli dà nuovamente il diritto di partecipare alle Universiadi a Città del Messico, scrivendo una delle pagine più memorabili dell’atletica mondiale. Sono le 15.20 del 12 settembre 1979 (le 23.20 in Italia), lo stesso anno in cui Enzo Jannacci cantava proprio Messico E Nuvole. Sul tabellone il suo nome esce storpiato, “Petro Menea”, affibbiandogli addirittura la nazionalità francese. Per i 200 metri, la sua gara, gli viene assegnata la corsia 4 della vecchia e consumata pista dello stadio Atzeca. La stessa pista dove undici anni prima, nel 1968, aveva visto dalla tv Tommie Smith stabilire il record mondiale di 19”83. “Ero alla ricerca di un tempo troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona – racconta –Remai un po’ in curva, controllai la sbandata all’entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all’ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10’’34 e i secondi in 9’’38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro della vittoria, ero confuso. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, 19”72 e subito pensai che forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel ’79 non nel ’72. Poi mi vennero tutti addosso, ci fu una gran confusione, non riuscivo più a respirare. La gioia fu immensa”. Tra i giornalisti che lo raggiunsero ancora col fiatone al termine della gara c’era anche Gianni Minà a cui il barlettano rilasciò queste parole: “Un ragazzo del Sud Italia senza piste oggi è riuscito a fare il record del mondo, anche se mi dispiace averlo tolto al favoloso Tommie Smith”.

Pietro Mennea - Record Mondiale - Credit il Post

3950 giorni dopo il record di Tommie Smith, il pugliese Pietro Mennea è diventato l’uomo più veloce del pianeta scardinando lo stereotipo che vedeva capaci di imprese del genere solo gli atleti di colore. Invitato dappertutto come ospite d’onore, in California fa la conoscenza con un altro mito dello sport: “A Cassius Clay (ma chiamatelo Muhammad Ali se no si arrabbia) mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso e mi disse: “Ma tu sei bianco”. “Si, ma dentro sono più nero di te”, gli risposi facendolo scoppiare in una risata”.

Nominato Commendatore (ordine al merito della Repubblica Italiana) gli allori e i riconoscimenti si susseguono, ma Mennea si stufa presto di fare l’uomo copertina. Sempre in Messico aveva ottenuto il record europeo dei 100 metri con 10”01 e si narra che rifiutò l’ennesima ospitata in tv, alla Domenica Sportiva: era stanco di raccontare sempre la stessa storia di quell’epica impresa, perché ne voleva vivere sempre di nuove. Si presenta in formissima prima a Viareggio, dove però viene battuto da William (“Era il doppio di me, quando mi passò avevo le sue ginocchia all’altezza del mio mento”) e poi in Coppa Europa a Torino, dove vince i 100 e i 200 metri.

La Freccia del Sud

In barba a chi affermava che i 3000 metri dell’Atzeca avessero favorito il suo come il precedente record di Tommie Smith, pochi mesi dopo Mennea concede il bis sul livello del mare, sulla pista che proprio lui aveva contribuito a far costruire nella sua Barletta, fermando il cronometro a 19”96: altro record che detenne fino al 1983. Nel 1980 è ormai chiaro che nemmeno i 100 metri sono più un tabù per lui e infatti vince il titolo italiano. Nei 200, invece, è come se gareggiasse da solo: anche qui è campione nazionale, ma per la quinta volta consecutiva, la nona in dieci stagioni, lasciando solo la briciola del ’75.

Alle Olimpiadi di Mosca ’80 Pietro Mennea non può più nascondersi: è il detentore del record mondiale e quindi grande favorito, complice anche l’assenza per boicottaggio degli Stati Uniti motivata dall’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS. Sui 100 metri, però, delude non raggiungendo la finale, vinta poi dallo scozzese Alan Wells: “Già in semifinale mi ero qualificato per il rotto della cuffia precedendo di un centesimo Crawford, che dalla rabbia buttò giù una porta – confessò poi Mennea – Anche io ero giù e mi isolai. Venne a trovarmi Borzov, ormai ex, e io non avevo tanta voglia di fare colazione con l’avversario di una vita. Lui si sedette ugualmente, mi regalò un orsetto di nome Misha e non la fece tanto lunga: “Ti ho visto spento, senza scintilla, guardati dentro e torna a mordere la pista””.

Pietro Mennea - Olimpiadi di Mosca 1980 - credit Biografie OnlineIl 28 luglio 1980 al grande Stadio Lenin di Mosca è in programma la finale dei 200 metri. La sorte gli riserva la pettorina numero 433 e l’ottava corsia: la peggiore, perché da lì non può controllare gli avversari. Subito alle sue spalle, in settima, si ritrova proprio Alan Wells mentre più avanti c’è un altro rivale insidiosissimo: il giamaicano Don Quarrie, campione olimpico uscente. La partenza è lenta e infelice, all’uscita della curva è penultimo mentre Wells, indemoniato, è tre metri più avanti: “Ho pensato: non avrò altre occasioni. Dodici anni di lavoro e di dolore per niente”.

In quel momento viene fuori tutta la sua rabbia agonistica e la voglia di riscatto. La forza, la decisione e l’adrenalina si impadroniscono di lui che metro dopo metro comincia a volare superando tutti gli avversari. Wells è ormai convinto di avere la vittoria in tasca e non lo vede sfilare dietro di sé sul rettilineo. Ai 180 metri, quando manca un fazzoletto di pista alla fine, è ancora secondo. Ai 190 appaia Wells e appena intravede il traguardo si tuffa per primo con la testa in avanti. Il cronometro segna appena due centesimi di differenza tra lo scozzese e Pietro Mennea che, col tempo (per lui non trascendentale) di 20”19 vince la Medaglia d’Oro alle Olimpiadi ed entra nella storia.

L’immagine del campione di Barletta coi muscoli del collo tirati, gli occhi sgranati e l’indice sollevato al cielo ha fatto il giro del mondo fissandosi nella memoria collettiva degli sportivi internazionali. Una rimonta emozionante quando tutto sembrava perduto che vale assai più degli otto milioni di lire di premio per l’oro olimpico, coi quali Mennea compra sei poltrone Frau.

Al rientro in Italia il Presidente Sandro Pertini lo abbraccia con affetto e lo investe dell’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica. Fu proprio alle Olimpiadi di Mosca ’80 – dove peraltro conquista anche il bronzo nella staffetta 4×400 metri – che Mennea si guadagna il soprannome di Freccia del Sud.

Pietro Mennea podio Olimpiadi Mosca 80 - Credit lapresse

Ori e allori

Proprio nel momento di maggior gloria, nel 1981, la Freccia del Sud annuncia la clamorosa decisione di ritirarsi per dedicare più tempo allo studio. “Avrei potuto battere il mio record dopo Mosca, valevo 19″60, me lo confermò Vittori, cronometro alla mano”, ma non erano i record che in quel momento lo gratificavano. Mennea ha già conseguito il diploma ISEF e la laurea in Scienze Politiche a Bari su consiglio dell’allora Ministro degli Esteri pugliese Aldo Moro, ma la sua sete di conoscenza non si è placata. Sempre molto attento alle dinamiche sociopolitiche dei paesi che ha visitato come atleta, anche nei suoi articoli giornalistici Pietro è un fervente sostenitore dell’importanza della cultura come crescita e completamento dell’individuo e non ha paura di fare un passo indietro per ottenere, stavolta, la laurea in Giurisprudenza: “Non c’è più cultura sportiva, c’è il mito del successo, non quello di farsi strada nella vita. Perché meravigliarsi del totonero, delle scommesse? Se non si studia, se non si hanno interessi, non c’è crescita della persona. Uno sportivo non deve essere Einstein, ma un minimo ci devi provare a darti degli strumenti e non solo pensare a come gonfiare il portafoglio”.

Pur non recedendo dal suo intento di laurearsi, l’amore del pubblico lo convince ancora una volta a tornare sui suoi passi. Nel biennio 1981/82 però l’Università resta la priorità e – oltre alla laurea – raggiunge soltanto un quarto posto nella staffetta 4×100 azzurra agli Europei di Atene. Sempre in tema di ritiri, il giorno prima dell’addio al Quirinale il Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo invita a colazione: “Era triste, mi commosse. Gli domandai cosa avrebbe fatto. “Tornerò a casa”. Chiesi: sua moglie l’aspetta? “Lo spero”, rispose“.

Il sentimento popolare non è però assecondato dalla critica edonista e filo-yuppie dell’epoca, che anche a causa dei suoi ideali lo vede come uno costantemente incazzato col mondo, un antipatico che parla di sé in terza persona e alza il dito polemicamente al cielo dopo ogni vittoria. Diversamente dall’altro idolo made in Italy che lo aveva preceduto sulle piste d’atletica, quel Livio Berruti da lui odiato e ricambiato, Mennea non è un predestinato, uno che grazie al talento innato può permettersi di improvvisare. Scrive Remo Bassetti: “Cumulava in sé una rabbia atavica e senza requie, la rabbia del diseredato, dell’incompreso, la rabbia del Sud povero: quel Sud del quale era il primo atleta ad ascendere a livelli assoluti, ma che trovava e lasciava nell’identica desolazione di uomini e strutture”. Da qui l’esigenza di studiare e allenarsi senza sosta, quasi come un asceta, sposando il cliché dell’antidivo che, in un un’era che rappresentò l’alba del marketing sportivo, gli rese certamente meno quattrini di quelli che ad esempio toccarono al suo coevo tennista Adriano Panatta dagli sponsor.

Nonostante la pausa, i 31 anni e il logorio fisico e mentale di una carriera che la sua inquietudine rende ancor più stressante di quanto già sarebbe, il 22 marzo 1983 Mennea stabilisce un record mondiale ancora oggi imbattuto: quello dei 150 metri, percorsi sulla pista dello stadio comunale di Cassino in 14”8. Successivamente prende parte alla prima edizione dei Mondiali di atletica ad Helsinki (bronzo nei 200 e argento nella staffetta 4×100) e ai Giochi del Mediterraneo di Casablanca (oro nei 200 metri piani e nella 4×100, argento nella staffetta 4×400).

A tre anni da Mosca ‘80, esattamente il 29 settembre 1983, partecipa a Cagliari ad un Meeting Internazionale di atletica leggera correndo nella staffetta 4×200 insieme a Stefano Tilli, Carlo Simionato e Giovanni Bongiorni: “Stasera mi spezzo ma vinciamo una medaglia”, dice ai compagni per caricarli. Non si spezza, bensì trionfa con il tempo di 1’21”10.

Questa ennesima rinascita fa di Pietro Mennea un modello planetario di sportivo per quanto riguarda dedizione, sacrificio e metodi di allenamento. Le sue fatiche sono sempre codificate in appositi tabulati dove tempi e numeri non sono mai lasciati al caso. Invitato da Carlo Vittori a un convegno in Germania Est, assiste alla lezione del suo vecchio prof. sui metodi di preparazione giornaliera. Davanti alle famose serie che prevedevano 25 volte i 60 metri e 10 volte i 150 metri i tecnici tedeschi presenti rimangono sbigottiti, affermando che al massimo i loro atleti facevano 6 volte i 150 metri. Uno di loro si alza e chiede a Vittori: “Scusi Professore ma chi ha fatto queste cose poi è morto?”. “No, è qui di fronte a voi”, risponde l’ex tecnico federale. Ma questo è anche l’episodio che accende una lampadina nella mente di Pietro: lo spettro del doping si stava affacciando nello sport e adesso comincia ad avere più di qualche dubbio su come mai alcuni corridori riuscissero a performare meglio di lui pur allenandosi tre volte meno.



Alfiere contro il doping

Pietro Mennea - Olimpiadi Los Angeles 84 - credit viagginewsDopo aver dominato ancora in ambito nazionale sui 200 metri nel 1983 e 1984, a Los Angeles ’84 Pietro Mennea corre la sua quarta finale olimpica consecutiva sempre dei 200, primo atleta al mondo a riuscirci (arriva anche 4° sulla 4×100 e 5° sulla 4×400). Pur essendo campione uscente, a 32 anni trova dinanzi a sé avversari molto più prestanti. Forse troppo. E arriva settimo, ritirandosi mestamente a fine stagione con diversi sassolini nella scarpa che si toglie solo qualche anno più tardi. Sulle piste californiane, infatti, vede troppi atleti volare in modo sospetto e negli spogliatoi aleggia sempre a mezza bocca il nome di questo fantomatico dottor Kerr. Dopo aver passato la vita a sudare in canotta e calzoncini a Pietro nasce spontanea la curiosità di verificare il suo atroce dubbio e decide di andare a conoscerlo. Kerr gli spiega le sue teorie e gli suggerisce di iniziare delle terapie a base di somatropina, un ormone della crescita che al tempo non era nemmeno annoverato tra le sostanze dopanti. Il dottor Linch, assistente di Kerr, gli fa recapitare direttamente in Italia le fiale da iniettarsi, sostenendo che con questa cura avrebbe persino potuto partecipare alle successive Olimpiadi del 1988. Subito dopo la prima puntura, però, il corridore pugliese è colto da una fortissima crisi di coscienza: “Mi guardai allo specchio e mi resi conto che non c’entravo niente con tutto questo e che se avevo vinto per tanti anni senza bisogno di nulla, probabilmente se avessi dovuto continuare aiutandomi così avrei persino mortificato tutto quello che avevo fatto prima”.

Convoca così una conferenza stampa in cui annuncia i motivi del ritiro, denunciando l’avvilente logica che dietro le quinte era stata già accettata anche da diversi tecnici e medici federali italiani: “Non posso più competere in un mondo dominato dal doping”. Mennea viene irriso e criticato dalla stampa come un traditore che ha sputato nel piatto dove ha mangiato e decide di rituffarsi nuovamente nello studio imbarcandosi in un’altra avventura universitaria per prendere una terza laurea, stavolta in Lettere.

Divenuto per l’ennesima volta dottore, viene scelto dal CONI come alfiere portabandiera della spedizione olimpica italiana per Seul ’88. Sul finire del 1987, dunque, torna ad allenarsi per quella che sarà la sua quinta Olimpiade a 36 anni suonati. Pur avendo superato il primo turno di qualificazioni dei 200 metri, esasperato decide di ritirarsi dalla competizione motivando in maniera schietta e scottante questa nuova uscita dalle scene, stavolta definitiva: “Nella vita chi prende la scorciatoia dell’illecito prima o poi viene fermato o si ferma da solo. L’essenza dello sport è vincere nel rispetto delle regole”.

Avendo seminato tantissimo nella vita oltre lo sport, Pietro Mennea avvia un’intensa carriera come giornalista pubblicista, commercialista, curatore fallimentare e revisore contabile: “Anche per me ad un certo punto è stato difficile guardarmi allo specchio e decidere: chi vuoi essere? Forse potevo vivere di rendita, invece mi sono rimesso ai blocchi per altre partenze”. Nel 1992 conosce a una festa l’avvocatessa Manuela Olivieri. Lei non sa chi sia lo sportivo Mennea, così quando al primo appuntamento lui si presenta con una Panda Young 750 bianca coi bordini azzurri, si innamora non del campione ma dell’uomo. Si sposano e Pietro comincia a lavorare come avvocato nel suo studio di Roma accaparrandosi nel frattempo la quarta laurea, quella in Scienze Motorie e scrivendo il suo primo libro: Diritto sportivo. Con elementi di diritto civile e tributario (Mediamix, 1993).

Controvento a testa bassa

Mennea è determinato a fare di tutto perché l’uomo del presente riesca a superare lo sportivo di ieri, che nel frattempo dopo ben 17 anni ha perso il record messicano di 19”72, soffiatogli da Michael Johnson ad Atlanta il 23 giugno del 1996 (19”66).

Un giorno gli comunicano che la grande cantante Mina, esperta ed appassionata di sport e di atletica in particolare, ha scritto un bell’articolo su di lui. Vorrebbe chiamarla per ringraziare ma viene anticipato e bonariamente rimproverato: “Ma cosa ci fai tu in uno studio legale e commerciale?”. Pietro risponde che di qualche cosa bisognava pur campare, ma lei insiste dicendo che uno come lui sarebbe dovuto andare tra i giovani, nelle scuole, nelle istituzioni, sul territorio a parlare di etica sportiva. Lo convince e col pretesto di presentare il suo nuovo libro Diritto e ordinamento istituzionale sportivo (Società Stampa Sportiva, 1996) comincia un lungo e appassionante tour in giro per l’Italia. Mennea è convinto che alla base di una società produttiva e meritocratica ci sia una scuola attenta e funzionale: “Credo in una scuola efficiente e in uno sport fatto di valori: senza una scuola efficiente la nostra gioventù non cresce. Conosco molte scuole e università italiane avendole io frequentate. Ebbene la nostra non è una scuola che possa assicurare questa efficienza e il fatto che ci siano ricercatori che vanno via a lavorare all’estero è un classico esempio di cose che non dovrebbero mai accadere”.

Nel 1997 pubblica il terzo libro Mennea: la grande corsa (Società Stampa Sportiva) e la FIDAL lo introduce nella Hall Of Fame di tutti i tempi. Ciononostante si sente abbandonato, non abbastanza considerato dal mondo sportivo italiano, probabilmente per le sue posizioni di rottura. Lo confessa durante una delle sue presentazioni a Roma ad Aniello Aliberti, allora presidente della squadra di calcio Salernitana: “Di lui si erano dimenticati e di questo Pietro era molto dispiaciuto – affermò Aliberti – Rimasi impressionato dalla sua competenza e pensai che potesse essere l’uomo giusto per dirigere il nostro club“. Così nel 1998 la Freccia del Sud sbarca a Salerno in qualità di Direttore Generale, incaricato da Aliberti di dare un occhio ai conti, gettare le basi per la quotazione in borsa della società e sovrintendere ai lavori di costruzione di Castel Rovere, un centro sportivo con impianti all’avanguardia che sarebbe dovuto sorgere nel comune di Giffoni Valle Piana. Più di tutto, però, a Mennea viene chiesto di formare le risorse umane del club sul management dello sport, trasmettendo i suoi valori e la sua voglia di vincere.

Nel 1998/99 la Salernitana viene promossa in Serie A dopo 50 anni dall’ultima partecipazione, categoria che ritroverà poi solo nel 2021, ventidue stagioni dopo. Come l’allenatore Delio Rossi e tutti i membri dello staff, Mennea viene portato in trionfo e preso a secchiate d’acqua negli spogliatoi. Una felicità estemporanea, perché Pietro nel calcio non si trova a suo agio. “Nonostante avesse un passato glorioso alle spalle – disse sempre Aliberti – era una persona umile e semplice, un uomo del fare in tutti i sensi. E proprio per questo si trovò a disagio nel mondo del calcio: lui, che era abituato al lavoro solitario sulla pista di Formia come ci raccontava spesso, si trovò catapultato nello show del calcio. Un meccanismo con cui proprio non riusciva ad andare d’accordo“.

Mennea voleva cambiare troppe cose: dai biglietti da non regalare più ai politici alla mentalità di alcuni genitori che si presentavano alle giovanili della Salernitana. Lui, che nella sua carriera legale aveva già seguito casi di calciatori in qualità di agente, cacciava anche in modo brusco madri e padri che volevano affidargli il figlio dodicenne o tredicenne dicendo “Mio figlio è un campionead uno che campione lo era stato veramente ma solo in seguito a enormi sacrifici: “Se diventeranno campioni nello sport ben venga, però se non succede ci sono tante cose belle da inseguire e da migliorare nella vita ed è lì che bisogna puntare. Io credo che il contributo che possono dare i genitori da questo punto di vista sia dire ai figli che la vita è fatta di altre cose più importanti rispetto al successo. È fondamentale vincere nella vita di tutti i giorni, è lì che è più difficile: è più duro che vincere la medaglia d’oro o stabilire il record del mondo, è lì che bisogna allenarsi, è lì che bisogna prepararsi ed è molto più duro quando questo insegnamento non arriva”.



La carriera politica

In seguito alla pubblicazione di Storia di un concorso. Storia e vicende di un concorso pubblico svoltosi in Italia (Ellerani) nel 1999 entra in politica tra le file de I Democratici, partito inquadrato nella coalizione di sinistra dell’Ulivo. Viene eletto alle elezioni europee e aggiunge al suo curriculum la voce di eurodeputato a Bruxelles, incarico che manterrà fino al 2004.

Nel 2000 il suo nome torna agli onori delle cronache in quanto partecipa a un concorso per ottenere la cattedra di Sistematica, Regolamentazione e Organizzazione dell’Attività Agonistica all’Università degli Studi dell’Aquila per la facoltà di Scienze Motorie. Arrivato primo in graduatoria, Mennea avrebbe diritto all’assunzione che però è vincolata alle sue dimissioni dal Parlamento Europeo, carica pubblica ritenuta incompatibile con la posizione di professore a contratto (privata). Dalla vicenda nascono interrogazioni parlamentari e polemiche, anche se Luciano Guerzoni, ai tempi Sottosegretario per l’Università e la Ricerca Scientifica del Governo Amato, alla fine dà ragione all’ateneo e Pietro comincia un’ennesima ulteriore carriera da docente universitario (sarà anche ordinario di Legislazione Europea delle Attività Motorie e Sportive all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara per la facoltà di Scienze dell’Educazione Motoria).

Nel 2001 esce L’Europa e lo sport. Il Futuro dello sport europeo (Ellerani) e Mennea si candida come Senatore della Repubblica alle elezioni politiche nella lista dell’Italia dei Valori senza però venire eletto. L’anno dopo cambia bandiera ed entra tra le fila di Forza Italia, il partito di destra fondato da Silvio Berlusconi, motivando la sua scelta con la voglia di cambiare le cose dall’interno: “La vita è fatta di momenti e quando ci si comporta in un certo modo non ci si deve rimproverare nulla – dice –  Ho cercato di fare sempre il mio dovere anche nel mio primo impegno politico. Sono riconoscente a Di Pietro per avermi scelto, mi sono messo a disposizione e ho dato il massimo. Oggi Forza Italia è una realtà importantissima, sta conducendo il paese e ha bisogno di potenzialità. È una motivazione in più per fare bene, sono stato accolto bene e mi onoro di entrare a far parte di questa famiglia”. Candidato con Forza Italia come sindaco a Barletta nel 2002, non viene eletto e stesso esito avranno le successive elezioni europee del 2004, anno in cui pubblica altri due libri: Le Olimpiadi del centenario (Atena Edizioni) e Diritto sportivo europeo. Scritti su alcune problematiche di diritto sportivo europeo (Delta 3).

Nel 2006, insieme alla moglie Manuela, dà vita a una Onlus, la Fondazione Pietro Mennea, col proposito di effettuare assistenza sociale e donazioni economiche a enti di ricerca, caritatevoli, associazioni sportive e istituzioni culturali mediante progetti di carattere filantropico. Ma non solo. Il pugliese non mette mai in secondo piano il carattere culturale delle proprie iniziative. Ricomincia così a girare l’Italia diffondendo i valori dello sport e promuovendo la lotta al doping, spesso in polemica con il CIO e l’assegnazione delle Olimpiadi alla Cina: “La Fondazione che io presiedo si pone in alternativa al CIO per quanto riguarda i valori. È naturale che devono fare quattrini e li fanno bene scaraventando sulle città e sui Paesi gli oneri delle Olimpiadi ma siamo noi ad andare sul territorio a parlare dei valori olimpici che loro non posseggono più – sostiene presentando il suo libro Il doping e l’Unione Europea (Delta 3, 2007) – Non puoi dare i cinque cerchi alla Germania nazista come non puoi dare i cinque cerchi alla Cina, ma oggi come allora certi errori si ripetono perché non interessano i giochi olimpici bensì gli affari, il business. Il Cio si prende i diritti televisivi e scarica sul paese organizzatore gli oneri delle Olimpiadi, è successo anche a Torino (nel 2006ndr) dove c’è un debito ancora da saldare. In Cina non sono rispettati i più fondamentali diritti umani e avevano bisogno di una vetrina internazionale per nascondere le proteste di piazza, per presentarsi al mondo come una nuova potenza. Ma oggi la Cina è forse tra gli ultimi paesi totalitari che abbiamo, dove non ci sono principi democratici e c’è una corruzione spaventosissima. Quando tu presidente del CIO vai all’Olimpiade cinese e invece di parlare di Tibet la prima cosa che fai è ringraziare tutti gli sponsor senza dire una parola su queste problematiche non va bene”.

 


Idolo di Usain Bolt

Pietro Mennea scrittore - credit il nuovo terraglioTra il 2008 e il 2009 pubblica altri tre libri: 19”72. Record di un altro tempo (Delta 3, 2008), Le olimpiadi di Pechino. I giochi che non avete visto (Delta 3, 2009) e Il doping nello sport. Normativa nazionale e comunitaria (Giuffrè, 2009). Ma il 2009 è anche l’anno in cui, sulla pista inglese di Manchester, Usain Bolt frantuma il record di 14”8 messo a segno dalla Freccia del Sud a Cassino nel 1983 sui 150 metri. Il velocista giamaicano ferma il cronometro a 14 secondi e 35, ma il tempo non viene omologato dalla Federazione in quanto ottenuto su pista rettilinea: il record di Pietro resiste ancora oggi! Intervistato sulla vicenda, Bolt risponderà molto sportivamente che proprio il pugliese ha rappresentato il suo mito fin dall’infanzia, ricordando le parole del tecnico Vittori quando disse chese Mennea fosse stato corretto tecnicamente tra i 12 e i 16 anni avrebbe potuto ottenere già allora tempi pari a quelli di Usain Bolt decenni più tardi.

Nel 2010 dà alle stampe L’Oro di Mosca (Delta 3) e sempre insieme allo studio legale della moglie dà avvio a una class action negli Stati Uniti per difendere alcuni risparmiatori italiani coinvolti nel crac della Lehman Brothers. Nel frattempo vengono assegnate a Londra le Olimpiadi del 2012 e Mennea scrive a Rogge, presidente del CIO, perché a 40 anni dalla strage di Monaco ’72 si ricordino gli atleti morti con un minuto di silenzio. Non verrà ascoltato e trasferirà i suoi sfoghi ancora una volta nei libri: I costi delle Olimpiadi (Delta 3, 2012), La Corsa Non Finisce Mai (Limina, 2012) e Inseguendo Bolt: lungo un percorso che conosco (Limina, 2012). La città di Londra, nell’ambito delle iniziative connesse ai Giochi Olimpici, gli dedica una stazione della metropolitana cittadina (High Street Kensington).

Il 21 marzo 2013 è il giorno più triste di questa storia: sfiancato da un tumore al pancreas incurabile, la Freccia del Sud si spegne a soli 60 anni in una clinica romana. Le condoglianze arrivano da tutto il mondo sportivo internazionale caduto nello sconforto. Sicuramente sincere quelle di Alfio Giomi, presidente della Federazione Italiana Atletica Leggera e suo grande amico, del suo vecchio rivale Don Quarrie (“Grande persona e grandissimo atleta, avevo per lui un’ammirazione sconfinata: per me averlo battuto qualche volta rappresenta un motivo di orgoglio”) e quelle arrivate dalla penna dei giornalisti Gianni Mura (“Di Pietro dicevano che avesse un brutto carattere, che vedesse nemici dappertutto. Ne aveva, in effetti, a cominciare da quelli che tuonano contro il doping e poi lo fanno entrare dalla porta di servizio, per continuare con quelli che pensano solo alle medaglie e ai guadagni e non hanno capito che c’è una rivoluzione culturale da fare, cominciando dalla scuola, dall’etica, e che non c’è solo lo sport di vertice ma anche lo sport per tutti”) e Gianni Minà, che così si espresse: “Conservo il ricordo di un grande, grande, grande, grande. Di un uomo verticale che ha dovuto lottare non solo sulle piste di tutto il mondo, ma anche contro l’incomprensione di un ambiente molto egoista. Ha dovuto sempre correre e fare il suo mestiere con pochissimi soldi. Per lui non c’erano mai soldi. Poi, certo, aveva un carattere tutto d’un pezzo e quindi c’erano sempre molti attriti con la Federazione”.

Da quel giorno le Ferrovie dello Stato gli intitoleranno un treno Frecciarossa, a Roma viene chiamato col suo nome lo Stadio dei Marmi, a Caserta la pista di atletica dell’impianto Alberto Pinto e ad Ariano Irpino addirittura l’intero stadio. Ogni 12 settembre (data del suo storico record dei 200 metri) viene celebrato il Pietro Mennea Day con gare di atletica aperte a tutti: il ricavato dalle iscrizioni viene devoluto alla sua Fondazione.

Nel 2015 va in onda su RAI1 una miniserie in due puntate (Pietro Mennea – La freccia del Sud) dedicata al grande velocista barlettano, diretta da Ricky Tognazzi con Michele Riondino nei panni di Pietro e Luca Barbareschi in quelli di Carlo Vittori.

Il 2018 è l’anno in cui cade l’altro record ottenuto in Messico, quello europeo dei 100 metri con 10”01, migliorato però da un giovane italiano col poster di Mennea in camera, il classe 1998 Filippo Tortu, che a Madrid scenderà sotto i 10 secondi facendo segnare il tempo di 9”99: “Per me Pietro Mennea non è un’ossessione ma un traino per migliorarmi. Ho avuto la fortuna di conoscerlo ma di lui apprezzo ancora di più quello che ha fatto fuori dalla pista di atletica“. Nel 2020, infine, esce postumo un altro suo libro di denuncia: Monaco 1972. Una tragedia che poteva essere evitata (Colonnese).



Soffri ma sogni

Pietro Mennea non si considerava né un eroe, né un mito, ma in fondo al cuore sapeva benissimo di esserlo. La vita gli ha dato e gli ha tolto: in cambio di una velocità praticamente disumana, con una capacità di accelerazione fuori dal comune, gli ha chiesto una fine dolorosa e prematura, a soli 60 anni, nel pieno di una maturità post-agonistica più unica che rara nello sport.

La Freccia del Sud è un’autentica leggenda nel mondo dell’atletica, un italiano bianco capace di diventare l’uomo più veloce del pianeta per circa due decenni con la sua corsa sghemba ma inarrestabile in progressione. Di Mennea si diceva: magro, storto, contorto. Ma duraturo: 5 Olimpiadi, dal ’72 all’88, unico duecentista a qualificarsi per ben quattro finali olimpiche. “Credo che il record più importante sia la longevità agonistica. La mia longevità non ha eguali al mondo perché nella velocità è difficile che qualcuno abbia fatto 5 Olimpiadi. E poi la longevità è anche sinonimo di garanzia, di pulizia, di interpretazione dello sport, perché io in vent’anni di attività sportiva non mi sono mai strappato a livello muscolare. Eppure mi allenavo, in proporzione, molto di più degli altri: ancora oggi io sono conosciuto come quello che si allenava di più al mondo”.

Pietro Mennea esultanza - credit Vesuvio liveLa sua perseveranza, la sua voglia di vincere fatta di tanti sacrifici e di allenamenti durissimi si sintetizzano tutti in quell’esultanza finale: inginocchiato, il braccio destro alzato, l’indice puntato verso il cielo, quasi a voler ringraziare qualche santo in Paradiso, lui che di “santi” in Terra non ne aveva. Pietro si aiutava da solo, con la dedizione al lavoro di chi sa di dover lottare per emergere e costruirsi un futuro migliore: “Lo sport mi ha insegnato questo e lo applico nella vita di tutti i giorni, in quello che faccio e in quello che farò: il grande insegnamento dello sport è che senza applicazione e senza impegno non si va da nessuna parte”.

Pietro Mennea non ha mai provato la gioia della paternità e forse non aver avuto figli ha contribuito a questa sua volontà di donarsi completamente alla collettività, con un occhio di riguardo verso i giovani: “Oggi la società mette la nostra gioventù su una falsa strada perché propone degli esempi fasulli, mentre gli esempi buoni non si vedono, non sono pubblicizzati. Medici che soccorrono malati, ricercatori che scoprono farmaci che poi salveranno migliaia di persone, professori che dedicano il loro tempo alla crescita della gioventù, qualche prete che consacra la propria vita agli altri, questi sono esempi che non appaiono. Sti ragazzi non devono per forza diventare campioni nello sport, devono essere campioni nella vita di tutti i giorni: quella penso sia la vittoria più bella credo anche per un genitore”. La più grande contraddizione di Mennea rimase forse quella di voler rappresentare un modello di sacrificio per chi voleva emergere, sottolineando contemporaneamente come quel sacrificio fosse unico e irripetibile.

È stato il più grande velocista dello sport italiano, uno dei migliori di sempre a livello europeo e mondiale. Pietro Mennea, semplicemente, è la storia stessa dell’atletica, non solo tricolore. Eppure se n’è andato così, in punta di piedi, come quando scattava dai blocchi di partenza circondato da avversari fisicamente ben più dotati. Ma nessuno era affamato come lui in quanto a grinta e determinazione, che gli han permesso di superare i limiti di un “sistema paese” arretrato, per nulla meritocratico e predisposto al cambiamento. Mennea era semplicemente avanti, non solo agli avversari in pista, ma anche rispetto ai suoi tempi. È stato un’avanguardia in piena regola, capace di guardare in prospettiva ben oltre il proprio naso. E le avanguardie, si sa, sono temute ed emarginate, specialmente se hanno esperienza, competenze e cultura sterminata come il pugliese.

Nonostante l’ovvia frustrazione, Pietro Mennea è sempre andato avanti per la sua strada, combattendo le sue battaglie insieme alla moglie Manuela, al suo fianco fino alla fine. “Quando corriamo al parco è più in forma di me, mi lascia indietro – affermò sorridente la Freccia del Sud in una delle sue ultimissime dichiarazioni ufficiali – Ogni tanto qualcuno mi ferma e mi chiede: e adesso che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: guarda, ho già fatto. Per la precisione 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, qualche record e tanto altro anche oltre lo sport. A 60 anni non ho rimpianti: rifarei tutto, anzi di più, mi allenerei otto ore al giorno anziché sei. Tanto la fatica non è mai sprecata: soffri, ma nel frattempo sogni”.

 

Luca Brindisino

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*Fonte immagini:

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